Domenico Ventura, Il guanto fucsia, 2009

Domenico Ventura, Il Rapper, 2013

Domenico Ventura, Tra gli scogli, 2007

Domenico Ventura, Bimbo spaventato, 2009

Domenico Ventura, Il gatto e la gallina, 2011

Domenico Ventura, Mani in tasca, 2006

Domenico Ventura, Il temporale, 2005

 

DOMENICO
VENTURA

 

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“Devo possedere e muovere da immagini reali. Qualunque mi porti ad un’opera che susciti ilarità la accetto indiscriminatamente. Le preferenze nelle scelte dei soggetti sono dovute alla mia formazione culturale, al mio modo di vedere la realtà e soprattutto ai tipi di individui che mi circondano con cui cerco il dialogo”.
Il punto di partenza è la fotografia, con la quale spiare e fissare 50 anni di storia, quotidianità e costume (o malcostume?) sociale e culturale della provincia contadina e non solo; il fine è la simpatia, intesa come identificazione e presa di distanza dell’osservatore attraverso il riso, vero fulcro, retroterra e soggetto della pittura di Ventura. L’ilarità cui il maestro altamurano accenna nella brevissima presentazione, da intendersi come risata chiassosa, manifestazione di allegria rumorosa (Hoepli), provocata da parole o atti buffi, comici, ridicoli (Treccani) introduce il carattere scomposto, caotico, carnevalesco e grottesco dei suoi personaggi, del mondo che popolano, ed è un concetto ambivalente, legato alla maschera, all’immaginazione collettiva, alla “sanzione” ed all’accettazione, sdoppiandosi parallelamente in rimprovero denigratorio ed in costruzione di sodalizio inclusivo. Serve anche a placare la paura della morte, esorcizzarla e controllarla. Il riso dunque, strumento con cui prendere distacco dai difetti della società e meccanismo di riconoscimento e comprensione nel gruppo, è sia – ma non sempre – l’atteggiamento beffardo di bambini, chierici, “donnacce” e buffoni che ne affollano i quadri, sia la reazione di fronte ad essi dello spettatore, nel tentativo di costruire un muro, per non identificarvisi.
Strettamente connessa all’ironia è la caricatura, come l’assurdo di certe situazioni: i volti esagerati nei lineamenti, gli sguardi sottili o assenti, l’autocompiacimento idiota nel mostrare la propria voluttà, il ribaltamento carnascialesco da “festa dei folli”. La caricatura – i cui primi esempi risalgono al Neolitico – è duplice anch’essa: se da un lato “smaschera” vizi e anomalie attraverso la deformazione, riprendendo il vecchio adagio di conformità tra bruttura fisica e morale, ha anche finalità elogiative: non essere fedeli e mimetici per risaltare quei tratti che fanno la differenza in una personalità “eccellente”. Nel ritrarre amici, conoscenti, familiari e perfetti sconosciuti studiati attraverso l’occhio meccanico – è chiaro, le foto e la loro oggettività sono solo un pretesto per mettere in scena il proprio mondo simbolico – Domenico Ventura ci mostra, con il riso, l’ambigua faccia della morale: cosa è giusto e cosa è sbagliato? Chi giudica e chi è giudicato? Definisci libertà, pudore, pensiero individuale.
Lo stesso vale per le continue allusioni sessuali. Spinti tra censura e voyeurismo, siamo – noi, il pubblico – costantemente in bilico nel considerare autoerotismo, esibizionismo, istinti animali e punizioni corporali presenti nei suoi quadri tra il riprovevole e la semplice espressione di un bisogno naturale, anche nelle manifestazioni più estreme. Ma da sempre l’osceno è in relazione con la risata, e la tradizione cui fa riferimento è quella del grottesco, del carnevale, dell’anarchia popolare. Accentuare proporzioni e moltiplicare la presenza di membri ed organi riproduttivi è metafora gioiosa di vita e della sua continuità, oppure sfida contro il comune senso di vergogna, emancipazione del corpo o sua degradazione. Scrive Massimo Guastella nel catalogo “Cattivi Pensieri”, 2000: [l’artista di Altamura] ha fatto del condizionamento morale e sociale, che rende inespressi e contorti gli aspetti erotici e sessuali, la connotazione del proprio lavoro. Cosa sono tabù, edonismo e peccato?
Domenico Ventura è nato nel 1942. Sotto i suoi occhi sono sfilati avvenimenti che hanno stravolto, nell’arco di poche generazioni, credenze ed equilibri fermi da duemila anni: il femminismo e la rivoluzione sessuale con la trasformazione del ruolo della donna, costumi più liberi e meno oppressivi, l’avanzare del laicismo a sfavore del controllo della gerarchia ecclesiastica su ogni passaggio della vita delle persone, l’innovazione tecnologica e il conseguente adattamento a nuove abitudini, l’interscambio con culture differenti, la metamorfosi in una società dell’apparenza, del vuoto, il neoliberismo rampante, con sempre meno Stato, tutela, valori. Nei piccoli centri i cambiamenti sono più lenti ad arrivare e ad attecchire, ed i personaggi di Ventura
testimoniano un mondo tutt’ora ancorato a pratiche quasi medievali e a ritmi dettati dal muovere delle stagioni e dalle necessità biologiche di animali e persone. Le sue maschere, mostri, gente comune rappresentano un compromesso tra passato presente e futuro, e ne sono consapevoli, portando sui loro volti le
cicatrici di una lotta tra le istanze del cambiamento ed una mentalità ancora primitiva. L’uso del ritratto è funzionale ad accentuare gli esiti tragicomici di tale processo, la fisionomia e le pose tormentate da timori, innocenza, ingenuità e “perversione”, confermando la corrispondenza tra interno ed esterno secondo cui l’individualità è la struttura psicofisica che supera completamente il contrasto tra corpo e anima in quanto contrasto (G. Simmel, Il volto e il ritratto, 1985). Il verismo analitico dettato dalla macchina fotografica, per favorire identificazione e proiezione, crea lucide composizioni che indugiano su ogni minimo dettaglio; le figure monolitiche occupano tutta la superficie (da cosa derivano? Dalle effigi rinascimentali o dal close-up del porno?) ed anche quando si disperdono in messinscena corali non allentano mai il travestimento che indossano. L’occhio del pittore oscilla tra freddo cinismo e divertita partecipazione: il suo lavoro, che si nutre di richiami e spunti figurativi che spaziano dall’iconografia sacra medievale ai prodotti della cultura
contadina e paesana, si inscrive nella tradizione oggettiva e realista, che ha visto negli anni ‘20 e ‘30 in Germania la sua più critica espressione, ma che è giunta fino a noi nella versione graffiante e non edulcorata attraverso le forme “basse” della satira e dell’illustrazione.
Riproporre oggi l’universo mordace di Domenico Ventura, popolato da folli, ebeti, santi ed eroi – specialmente nello Studio Abate, grande amico e sodale del pittore da Altamura, che ha insistito per una programmazione che si occupasse di mettere in luce il versante “borderline” (ma non meno rilevante) del sistema arte – significa non solo ripercorrere la storia recente di un paese narrata da un punto di vista alternativo, quindi foriero di valutazioni insolite, ai margini geografici e umani del mainstream, ma fare il punto su una tradizione controcorrente, che ha contribuito a sviluppare una poetica incentrata sul frammento, la lateralità, la diversità, il confine, il pensiero non istituzionalizzato.
Carlotta Monteverde